All’orizzonte la “Vengeance”
Con questi ricordi di Frederick, allora dodicenne, ripercorriamo brevemente quelle giornate tristi per Genova. Si tratta di piccoli episodi visti e vissuti dalla famiglia del console, certamente in modo diverso da come li visse la popolazione genovese.
«Da un stanza della nostra casa, nei primi mesi del 1849 [presumibilmente intorno al 24 febbraio, data in cui Hardwicke scrisse una lettera da Genova al suo ammiraglio Parker] mio padre mi mostrò la più grossa vela che avessi mai visto, si ritagliava contro l’orizzonte là verso Portofino». Era la Vengeance, una nave da battaglia con 84 cannoni agli ordini del capitano Hardwicke, proveniva da Malta su richiesta del console per proteggere la vita e gli interessi dei suoi compatrioti.
I genovesi avevano bisogno di sapere, di capire e così cercavano di apprendere più notizie possibili, tenuto conto che quella grande nave in porto poteva significare qualcosa di brutto.
«Ero con mio padre nella casa sul lato sud di piazza Fontane Marose, proprio prima della svolta che va giù dalla libreria Streglio. [Il riferimento dell’autore si riferisce a quanto presente nella piazza nel 1917. Infatti la Streglio aprì una succursale a Genova nel 1904, in vico Stella al numero 24, vicolo che si diparte da Piazza Fontane Marose].
«La folla aveva saputo che il console era in ufficio e voleva saper da lui cosa avevano intenzione di fare gli inglesi. Lui che aveva il dono della parlantina e non era per niente timido andò alla finestra e si rivolse alla folla. Non parlava bene l’italiano, ma con voce forte in modo che ognuno dei presenti potesse sentirlo urlò: “As I wish you to understand every word I am going to say, I shall speak in English!” [Come vorrei che voi capiste ogni parola che dirò, parlerò in inglese]. Penso che pochi capirono quello che aggiunse dopo, ma applaudirono, io che avevo quasi dodici anni risi fino a quasi piangere».
L’Italie c’est une corde de sable
“L’Italie c’est une corde de sable” questa frase era spesso tirata fuori dal console quando con i suoi amici parlava dell’Italia. Veniamo al 27 di marzo quando a Genova la popolazione incominciò a “sentire” che stava succedendo qualcosa: «In quei giorni la prima emozione fu il suono simultaneo di tutte le campane della città sopra di noi, dai campanili continuavano a uscire, per ore e ore, singoli colpi dalle campane più grandi. Quella del Palazzo Ducale – vecchia di un centinaio di anni – il “Campanun du Paxo” [Campanon de Päxo] si crepò a causa dei violenti colpi». Infatti dopo i primi tumulti vennero suonate le campane per chiamare a raccolta la popolazione. Due giorni dopo il console inglese sulla Gazzetta di Genova e sul Corriere Mercantile (da quest’ultimo giornale fu tratta la notizia riportata negli Stati Uniti, dal giornale di Washington “The daily national Whig) apparve un suo annuncio dove dichiarava con parole ferme che la sicurezza delle persone e dei beni dei suoi concittadini erano sacre!
Il 31 marzo il “ponticello” che collegava Palazzo Ducale con la chiesa del Gesù fu distrutto e i rivoltosi saccheggiarono anche palazzo Tursi, allora collegio dei Gesuiti, da dove furono cacciati via. Uno di questi, un giovane inglese, trovò rifugio nella casa del console.
“Ti giuro che affonderò la mia spada nel tuo corpo”
Nei suoi racconti Frederick cita anche l’episodio di quando, andando con il padre (vestito in uniforme) a palazzo Ducale, mentre salivano su per le ampie scale di destra, incontrarono Avezzana [comandante della Guardia Nazionale] che scendeva con il suo staff. In quei giorni [nei primi giorni di aprile] era stata comunicata una notizia risultata poi falsa, dove si diceva che Avezzana intendeva liberare i galeotti rinchiusi in darsena, circa 800/1000 persone. Il risultato di questa decisione poteva essere pericoloso.
«Se mio padre era venuto qua allo scopo di parlare con lui o non, questo non lo so. Comunque, rimanendo uno o due scalini sotto di lui e parlando in francese, lo sfidò a riferire se la notizia sui galeotti fosse vera, perché – aggiunse mio padre – portando la sua mano sulla spada: “Se tu sei colpevole di un tale crimine, ti giuro che affonderò la mia spada nel tuo corpo”. In quel momento qualsiasi cosa sarebbe potuta accadere tra i due. Avezzana ebbe il buon senso di andare via senza proferire parola».
C’era chi danzava intorno alla bandiera inglese
«Lord Hardwicke una notte venne a casa Cambiaso per dirci che le truppe governative si sarebbero impadronite della porta di S. Bernardino, sopra la nostra casa, e avrebbero spinto il loro attacco giù dalla collina di S. Maria della Sanità, passando così davanti alla nostra porta, e che la cosa migliore da fare era andare a bordo della sua nave, la Vengeance. Il padrone di casa il vecchio marchese Santo Cambiaso¹ invece “danzava” intorno alla bandiera inglese che sventolava nel giardino, cantando “Salvum me fac! – Salvum me fac!”. Certamente la bandiera non ci poteva salvare. Sapevamo che i locali sotterranei di villa Gruber, sopra di noi, erano stati utilizzati come sicuro deposito per i nostri gioielli e soldi, ma bisognava fare subito le valigie e sbrigarsi ad andare a bordo della nave».
¹ In una pubblicazione del 1835 il marchese Santo viene indicato come Commissario alle leve, cap. nelle R. Armate, ed è anche indicato l’indirizzo di casa Cambiaso, salita S. Maria della Sanità 635.
Vidi l’inizio dell’assalto a Genova
«A bordo della Vengeance vidi l’inizio dell’assalto a Genova. La strada che partiva dalla Lanterna e dalla batteria di S. Benigno, attraversava l’ingresso della cava di S. Benigno con un ponte. Su quel ponte vidi correre un bersagliere, che dato uno sguardo in giro, e visto che non c’era nessuno, sparò un colpo in aria. Subito dopo un gruppo di suoi commilitoni lo raggiunse, poi l’intero battaglione. Arrivarono in via Milano, dove irruppero in ogni casa, inizialmente non trovarono resistenza ma molto presto ci furono dei feriti. Sempre in via Milano vidi mettere un “treppiedi spara-razzi” [Congreve rockets] e cominciarono a far fuoco, lanciando i razzi, uno dopo l’altro, mentre un cecchino solitario, dalle rovine della porta di S. Tommaso, sparava in direzione del Palazzo del Principe. I cannoni spararono, a intervalli, per tutta la notte, a volte abbastanza vicini a noi».
Quelle notti nella cabina del capitano
«Rimanemmo a bordo quattro giorni. Io fui messo a dormire nella cabina del capitano tra due cannoni. Eravamo ormeggiati al molo Nuovo – allora era ancora corto – alla foce del porto, con la Lanterna alla nostra sinistra, la darsena e la città di fronte a noi. Il cannoneggiamento andava avanti principalmente tra la batteria di S. Benigno tenuta da La Marmora e quella della batteria della Cava. I colpi passavano attraverso la bocca del porto sopra le nostre teste. Dalla nave vidi pure un colpo – sparato dalla Cava e indirizzato a due cavalieri in uniforme – si trattava di Lord Hardwicke, che insieme a mio padre stava cavalcando sulla strada lungo il mare – la strada che portava dal palazzo del Principe alla Lanterna, ora via Milano. Fortunatamente il colpo andò a finire nella cava di S. Benigno.
Il capitano della Vengeance descrive alla moglie la situazione a bordo della sua nave: «In un giorno avevamo portato a bordo della nave più di 120 rifugiati, ma non era così comoda come ci aspettavamo. La nave era piena e per tre notti non mi tolsi mai i vestiti, anzi non riuscivo a trovare un piede quadrato² su cui riposare, in una delle due cabine».
² square foot 0,092 metri quadrati
Quattro palle di cannone
«Quattro palle di cannone raggiunsero anche la villa di casa Cambiaso, una di queste passò vicina a mia madre mentre era alla finestra. Il principale scontro, con più di 250 tra morti e feriti, avvenne con sparatoria a breve distanza con gli occupanti della prima casa di via Carlo Alberto, sulla cui facciata per molti anni si potevano ancora vedere i fori delle pallottole. In quei giorni mio padre mi portò con lui alla Lanterna, dove vidi Alfonso La Marmora. La statua della Madonna, [la scultura opera di Bernardo Carlone è ora a palazzo S. Giorgio] che stava lì fu colpita dalle palle di cannone, ma fortunatamente distrussero solo la nicchia in cui si trovava». L’incontro di mio padre con La Marmora era dovuto al fatto che i suoi uomini avevano violato una casa protetta dalla bandiera britannica. Avevano fatto dei danni materiali, specialmente nella cantina dove avevano trovato una grossa quantità di vino».
“Il bombardamento di Genova” così titolava il giornale statunitense “The New York Herald” del 2 maggio 1849. L’articolo riporta, da un’altra testata, una lettera del 7 aprile di un ufficiale della nave Princeton degli Stati Uniti, contenente interessanti particolari sul bombardamento e sui combattimenti a Genova: “Sparavano da ogni lato e sopra di noi. Tre palle di moschetto colpirono la nostra nave e un razzo ha strappato via una scala di un albero. Parecchie navi mercantili inglesi e danesi furono scorticate dai colpi, un colpo da 32 pound colpì un brigantino inglese poco sotto la linea di galleggiamento. La Nabriska ricevete a bordo tutti quelli che lo desideravano. I cittadini sono comandati da un mercante di New York, il generale Avezzana, la cui famiglia risiede in quella città”.
Fu un bacio o un saluto militare?
«Mio padre un giorno mi portò in città a vedere le barricate. Erano ovunque, tutte le strade principali erano chiuse. Sia via S. Lorenzo, sia via Nuova erano chiuse su entrambi i lati. Usavano mettere come barriere su queste strade le pietre divelte dalla pavimentazione stradale, fino ad arrivare quasi ad altezza uomo, lasciando uno spazio di due piedi, così da permettere il passaggio di una sola persona; ovviamente guardato a vista da uomini armati e anche da donne, pure loro in armi».
Adesso un piccolo episodio, che come spesso accade in momenti terribili, ha due diverse versioni.
«Mio padre mi raccontò che stava passeggiando con Lord Hardwicke per via S. Lorenzo quando trovarono una barricata, alla fine della strada vicino all’Arcivescovado, controllata da una donna. Quando cercarono di passare, senza un salvacondotto o, qualcosa di similare, lei abbassò il fucile e con intenzione evidentemente ostile fece un passo verso di loro puntandoli contro la baionetta! Lord Hardwicke, per niente intimidito, con la mano spostò da un lato il moschetto e presa la donna tra le sue braccia, la baciò vigorosamente. La folla armata, lì attorno, si mise a ridere e li lasciarono passare. Le barricate non erano sempre formate di sole pietre, usavano anche ciò che era a portata di mano, ne vidi una vicino a Sant’ Ambrogio fatta da confessionali e banchi presi dalla chiesa lì vicina [Si tratta della chiesa del Gesù di piazza Matteotti, più precisamente la chiesa dei S.S. Ambrogio e Andrea]».
Questa è la versione raccontata da Frederick, Lord Hardwicke scrivendo alla moglie invece descrive l’episodio con un finale diverso.
Genoa: April 20, 1849. ‘My beloved S., ‘I have no sooner dispatched my letter to you this afternoon than I again take up my pen to carry on the narrative of the recent events here. […]’I had to pass three barricades before reaching the Palace, the two first were deserted, on passing the third a bayonet was presented to my breast. On looking up I found the other end was in the hands of a pretty delicate woman. I pushed the weapon aside and giving her a military salute, passed on. I got easy access to the Municipal Body.
Come si legge in questa lettera, Lord Hardwicke per andare a Palazzo Ducale dovette passare tre barricate, le prime due deserte, l’ultima, quella raccontata anche da Frederick, invece sotto il controllo dalla “donna con la baionetta” che lui non baciò, ma salutò militarmente! Forse non era il caso di dire alla moglie tutta la verità.
La famiglia Jenkin
Non solo dalla famiglia del console abbiamo notizie di quei momenti terribili. A Genova c’erano i Jenkin che vissero qui per 3 anni e della loro permanenza a Genova ne abbiamo notizia, in particola modo del loro figlio Fleeming, grazie al libro “Memoir Of Fleeming Jenkin” di Robert Stevenson.³ Fleeming studiò nella nostra università – fu il primo studente di fede protestante a Genova – e una volta ritornato in Inghilterra insegnò ingegneria al Stevenson, che abbandonati gli studi universitari divenne poi il famoso scrittore che noi tutti conosciamo.
³ Robert Louis Balfor Stevenson, l’autore del romanzo “L’Isola del tesoro”
Ecco cosa racconta Stevenson: «Domenica 1 aprile – Fleeming e il capitano andarono a fare una passeggiata oltre le mura, lasciando la zia Anna e la signora Jenkin [Henrietta Camilla Jackson amica di Agostino e Giovanni Ruffini, quest’ultimo autore del libro “Il Dottor Antonio”, opera apprezzata anche da Charles Dickens] a camminare sugli spalti con alcuni amici. Sulla via del ritorno, si riposarono nella Chiesa della Madonna delle Grazie.
“Avevamo osservato”, scrive la signora Jenkin, “L’intera assenza di sentinelle sui bastioni e come i cannoni fossero abbandonati a se stessi”; avevo appena detto “Com’è tutto tranquillo!” quando improvvisamente sentimmo i tamburi che iniziarono a battere e anche delle grida in lontananza».
I Jenkin arrivati da Parigi, erano abituati ormai alle rivoluzioni, non erano per nulla spaventati.
«Dopo tutto ciò, hanno ripreso il loro ritorno verso casa. Durante il tragitto videro uomini che correvano e vociferavano, ma nulla che indicasse qualcosa di pericoloso, finché, vicino al palazzo Ducale, si imbatterono in una folla urlante che stava trascinando tre cannoni. Erano appena passati, che la folla passò di nuovo vicino a loro. Un giovane di bell’aspetto era nelle loro mani; e la signora Jenkin lo vide con la bocca aperta come se cercasse di parlare, lo vide che se lo passavano da uno all’altro come una palla, poi scomparse alla sua vista. “Morì pochi istanti dopo, ma la folla ci nascose la vista di quel fatto di sangue. Mi tremarono le ginocchia e la vista mi si appannò”. Con questa tragedia di strada, il sipario si alzò sulla loro seconda rivoluzione. L’attacco allo Spirito Santo, la capitolazione e la partenza delle truppe seguirono rapidamente».
«Il nostro Console [Timoty Yeats Brown] portò l’Intendente a bordo della Vengeance, scortandolo prima per le strade e poi accompagnandolo a bordo di una barca, e quando gli insorti mostrarono i loro moschetti, si alzò e si dichiarò: “CONSOLE INGLESE”».
“Un amico dei Jenkin”, il capitano Glynne, ha avuto la parte più dolorosa, anche se meno drammatica. Un certo colonnello Nosozzo era stato ucciso mentre cercava di impedire alla sua artiglieria di sparare sulla folla; ma in quel calderone infernale di una città atterita, non c’erano distinzioni, anche la vedova del colonnello era braccata. Visto il pericolo che correva, i Glynne la nascosero; il capitano Glynne cercò il corpo del marito e lo trovò tra gli altri morti, prese una ciocca dei suoi capelli e la portò alla vedova».
Per segnare che in quella casa c’era una famiglia inglese e quindi neutrale a quelle vicende, veniva esposta la Union Jack, come abbiamo precedentemente visto per casa Cambiaso. I Jenkin anche loro avevano delle persone che si erano rifugiate nella loro casa. «Avresti dovuto vedermi fare una Union Jack da inchiodare sulla nostra porta”, scrive la signora Jenkin. “Non ho mai lavorato così in fretta nella mia vita”. “Il lunedì e il martedì furono tranquilli, i nostri cuori battevano veloci nella speranza dell’arrivo di La Marmora, le barricate nelle strade, nessuno, solo stranieri e donne con il permesso di andarsene via” continua la signora Jenkin. Quella sera i Jenkin seduti nel loro salotto, senza luci, vedevano fuori gli enormi bagliori rossi dei cannoni dei forti di Brigata [Begato] e della Specula, e ne ascoltavano il fragore del cannoneggiamento».
Il forte Begato e la torre Specola furono entrambi occupati dai rivoltosi, dal forte Begato poterono controllare la Val Polcevera, attraversata dalla strada di accesso a Genova. Dal forte i rivoltosi bombardarono i soldati regi che avevano rioccupato la collina di San Benigno e il Forte Tenaglia 4. Il comandante dei Forti era Lorenzo Pareto, comandante anche della Guardia Civica che sosteneva la rivolta dei genovesi. 4 tratto dai Forti di Stefano Finauri
Stevenson prosegue nella descrizione di cosa i Jenkin videro e fecero a Genova. Anche qui viene riportata la notizia (falsa) della liberazione dei galeotti e a causa di questo alcune persone fidandosi della Union Jack sulla porta dei Jenkin, andarono da loro a pregarli di nascondere in casa loro la loro biancheria e altri oggetti di valore. In mezzo a tutto quel trambusto e allarme si dovettero esaminare pile di merci e fare lunghi inventari.
«Alle cinque della domenica mattina, zia Anna, Fleeming e sua madre furono portati a bordo di un mercantile inglese, dove passarono “nove ore di agonizzante suspense”. Alla fine la pace fu ripristinata. Il martedì mattina gli ufficiali con le bandiere bianche erano sui bastioni, poi reggimento dopo reggimento, le truppe marciarono in città, duecento uomini dormirono al piano terra della casa dei Jenkin, trentamila entrarono in città, ma senza disturbare».
Di questa pagina dolorosa di Genova, furono riportate alcune notizie anche dai giornali esteri. Dagli Stati Uniti il 22 aprile 1849 il Daily Union scriveva: “Il clero si era unito alla guardia nazionale, e il console britannico, che si era reso odioso per quel proclama che aveva promulgato qualche giorno prima, fu insultato, e le insegne inglesi rischiarono di essere abbattute davanti alla sua residenza.”
L’altro giornale “The Port Gibson Herald, and correspondent” alcuni mesi dopo, il 15 giugno 1849 riportava questa notizia: “Strana scena a Genova – Un genovese “Rozzo e pronto” – Lord Hardwicke, comandante della nave di linea di sua Maestà Britannica, la Vengeance, sembra essersi fatto oggetto di ridicolo da parte di tutte le classi di Genova, inclusi i suoi stessi compatrioti, per il bullismo e il modo da dittatore in cui si comportò con i genovesi, durante l’ultimo valoroso movimento popolare, guidato in quella città dall’eroico generale Avezzana.
Con questo ultimo articolo, si concludono le notizie riportate sul sacco di Genova, da parte di quei stranieri che erano presenti in quei giorni in città.
fine 3° parte – Continua