La comunità inglese a Genova nell‘800

Premessa

La lettura di “Family notes” mi ha dato l’occasione di conoscere alcuni episodi presenti in questo libro che parlano di Genova dal 1840. Molti sono stati i racconti sulla nostra città fatti dai “turisti” dell’ottocento, per la grande parte britannici. Questo è particolare perché è una descrizione di episodi, anche storici, visti dagli occhi di un bambino che trascorse qui parte della sua vita. Si tratta di Frederick Yeat Brown figlio dell’allora console di Gran Bretagna, quindi una persona di una particolare condizione sociale, molto più particolare se consideriamo il periodo storico.

Ho incrociato quanto scritto in lingua inglese da Frederick, con altri libri, articoli di giornali, stampe e fotografie, tutto comunque sulla comunità inglese a Genova nel secolo XIX.

Con il fratello, le sorelle e i suoi genitori visse nell’isola di Palmaria dal 1832 al 1840, erano i soli abitanti, a parte i pescatori e le loro famiglie. Si fornivano di vettovaglie direttamente a Genova dal signor Cevasco, oste della “Quattro nazioni”.

Elenco di alberghi e locande tratto da una agenda su Genova del 1835

Nel 1840 il padre di Frederick si trasferì a Genova per adempiere al suo incarico di console.  Andarono ad abitare in via Cairoli, in una delle ultime case, sul lato sinistro prima di arrivare alla Zecca, ma presto si trasferirono nel palazzo Cambiaso, in salita S. Maria della Sanità, oltre la chiesa dei Cappuccini dove rimasero per 24 anni.

Palazzo Cambiaso

Scopriamo com’era questa casa Cambiaso. Il piano terra, con l’accesso direttamente dal giardino, aveva a sinistra della hall una sala da pranzo e dietro di essa una cantina. A destra una stanza e una camera da letto dalle cui finestre si poteva vedere in basso la valle occupata dalla “villa”. Dalla hall, con tre scalini di marmo, si arrivava a un piano da dove partivano due scale, una ripida che conduceva agli alloggi della servitù e alla cucina e un’altra di ventidue scalini portava al piano di sopra, dove c’erano altre stanze. Da qui con un’altra scala di ardesia si arrivava a tre stanze da letto, una sala “rossa” riservata alle danze e tre salotti di diversa metratura. Il salotto, quello grande, fu onorato da una visita importante. Charles Dickens qui lesse, quando Frederick era bambino, il suo libro “Christmas Carol” a un ristretto pubblico, amici del console e dello stesso scrittore. (cfr. Sono lì gli amici “genovesi” di Charles Dickens)

Infine con l’ultima scala “The black stair” si arrivava ad altre sei camere: «Nella casa Cambiaso occupavamo praticamente tutta la casa ad eccezione di un paio di stanze che la famiglia Cambiaso (1) aveva tenuto per se. Le loro erano nel retro della casa, le nostre avevano la vista del mare da Bordighera fino a Portofino».

(1) il Marchese Santo Cambiaso.

“Quando l’oro, il greco e l’amore non erano nei nostri pensieri”

Questa casa aveva anche una parte esterna, un divertimento per i più piccoli, infatti: «Finite le vacanze a Recoaro noi bambini eravamo molto contenti di ritornare a Genova nel palazzo Cambiaso e nel suo giardino con tutta quella frutta che era deliziosa e abbondante: il pergolato lungo più di 60 yards [c.a. 55 metri] coperto da grandi grappoli di uva bianca e nera (la peronospora e il crittogama erano ancora sconosciute), il grande albero di albicocche che nelle annate buone produceva più di duemila albicocche, i quattro grossi alberi di arance: “Mi ricordavo che ne mangiai quattordici senza muovermi dal ramo dove stavo seduto”. Queste cose sono piacevoli da ricordare, anche se quel bambino ha ormai settantotto anni».

Questo bel giardino era su due livelli. Nella parte superiore c’era il fico, i quattro alberi d’arancio in enormi vasi di terracotta e la peschiera che stava appoggiata contro il muro. Quest’ultimo era ricoperto di limoni e separava la casa da via S. Maria della Sanità [Allora iniziava all’altezza del convento dei Cappuccini, ora via Goffredo Mameli – vedi cartina].

La vecchia salita S. Maria della Sanità

La parte inferiore si raggiungeva con un’ampia scala divisa in due ali, ombreggiata da quattro grossi alberi di arance; sotto la scala c’erano una fontana e una veranda (una capanna di paglia per l’estate), un enorme albicocco, altri alberi da frutta e un appezzamento con verdura e fiori. Alla fine del lungo pergolato di uva c’era il cancello di ferro che dava accesso alla “villa” dove i bambini ne godevano appieno tutto il suo spazio. Si estendeva in tutta la valle, dove ora c’è via Goito e via Palestro. Per la costruzione di queste strade [1852 ndr] fecero brillare anche le mine, che proiettarono alcune pietre anche contro le finestre di questa casa.
«Che giorni felici quando l’oro, il greco e l’amore non erano nei nostri pensieri».

La suora, i “tacchini” e il marchese Paolucci

Tra i suoi ricordi, c’è anche un episodio di quando suo padre s’interessò di una richiesta arrivata da una ragazza inglese, forse irlandese. Chiedeva di lasciare il convento dove si trovava. Al console arrivò la sua lettera dopo che questa era stata gettata dalla finestra del convento, giù nella strada. Se ne occuppò subito, perché cittadina britannica, e dopo un primo rifiuto dei religiosi a un colloquio, cui fece seguito subito una sua protesta, riuscì con l’aiuto del marchese Paulucci (il governatore piemontese di Genova) a vederla e dopo averle parlato nel convento, la portò via con una scorta di gendarmi.

Piemontesi e Paulucci sono due parole che riportano alla sua memoria anche due curiosità. Ecco quella sui piemontesi: dopo l’annessione al Piemonte, nel 1814, Genova fu governata da Torino con non poco “fastidio” da parte dei genovesi, che chiamarono in modo dissacratorio “tacchini” i piemontesi che erano stati mandati giù a Genova, mandati appunto come tacchini di Natale, per ingrassare nella nostra città.

Di Filippo Paolucci (governatore “dittatore” della città dal 1832 al 1847), che viveva a Palazzo Ducale – a quel tempo chiuso sul davanti e con un “ponticello” che lo collegava alla chiesa del Gesù – riporta questo particolare episodio.

Il governatore Filippo Paolucci

«Un giorno furono portati davanti a lui in giudizio un uomo e una donna, entrambi nobili, che non andavano troppo d’accordo. Il governatore (la sua parola era legge), disse loro che non approvava i litigi familiari e che dovevano comportarsi in modo adeguato in quanto sposati, dando così un buon esempio a loro “inferiori”. Erano arrivati in questa sede separatamente con due vetture, ma dovettero ritornare a casa in un’unica carrozza».

«Come raggiungevamo il teatro in quegli anni»

Adesso ripercorriamo, virtualmente, il percorso che si faceva per andare al teatro Carlo Felice, prima della realizzazione di via Roma. «Nell’entrata di palazzo Cambiaso era presente una portantina e la usai spesso per andare con mia madre al Carlo Felice. Un servitore stava davanti a noi con una lanterna e ci illuminava le strade buie – allora non c’era il gas o le luci elettriche (2). Le strade, erano illuminate ma con lampioni a olio non molto vicini tra di loro. Questo mi fa venire in mente – ricorda sempre Frederick – la canzone della rivoluzione francese “Le aristocrates à la lanterne” che raccontava dei corpi degli aristocratici appesi lungo le strade al posto delle lanterne».

(2) La Società di Illuminazione a Gas stipulò il 25 settembre 1844, il primo contratto per il servizio dei pubblici fanali – Nel 1846 apparvero a Genova i primi fanali pubblici a gas in sostituzione di quelli a olio. 

Il percorso per raggiungere il teatro Carlo Felice

Una volta saliti sulla portantina la signora Stuarta e Frederick erano pronti per il teatro, «Andavamo giù da salita S. Maria della Sanità che era stretta e ripida, pavimentata con ciottoli e con un striscia di mattoni nel mezzo che serviva per i muli e per le persone. Poi raggiungevamo il fossato che stava ai piedi delle antiche mura cittadine, giravamo a sinistra, passato il teatro Diurno (dove ora c’è il Politeama) e così fino allo spazio da dove, ora, via Assarotti, via Palestro e via Goito si irradiano su per circonvallazione a monte. In questo spazio iniziava un ripido e stretto vicolo che correva lungo il confine della casa Cambiaso fino al convento “delle fette biscottate” (ndr: crosa del Formaggiaro – cfr. il capitolo “Una libbra di fette biscottate”) e da qui alle fortificazioni. Mentre sulla destra, dove ora c’è piazza Corvetto, un arco passava sotto l’Acquasola che si estendeva sino ai giardinetti Dinegro (dove ora c’è la statua di Mazzini). L’arco era fornito di vasche d’acqua e dava accesso all’Acquasola per mezzo di due larghe scalinate.

La nostra portantina passava attraverso quest’arco e ci infilavamo in uno stretto pittoresco vicolo, dove mio padre comprava la frutta. Eravamo tra la chiesa di S. Marta e il palazzo Spinola, quest’ultimo si trova in cima alla salita di S. Caterina, allora l’acquedotto civico attraversava la strada, avvolto sempre da erbacce come fossero dei festoni. Andavamo giù per Via S. Sebastiano per arrivare infine alla porta del teatro riservata alle portantine, che si trovava dove ora c’è la fine di Galleria Mazzini».

Finito lo spettacolo al Carlo Felice riprendevano la strada per casa Cambiaso. «Immaginate come era la via del ritorno, nelle oscure silenziose e strette strade, il servitore oscillava la lanterna davanti a noi, mio padre e un amico camminavano sull’altro lato e i portantini ci trasportavano con una andatura fatta di passi corti, rapidi e “fuori tempo”. Se fossero andati a tempo, la persona trasportata avrebbe dovuto subire un viaggio poco confortevole a causa del dondolio della portantina»

“Sarçî e stradde neuve”

Salita S. Caterina era il solo accesso carrozzabile per l’Acquasola da piazza Fontane Morose e ovviamente da via Nuova e via Nuovisima. Negli ’40 del 1800 le vie Nuova e Nuovissima, nei pomeriggi domenicali, erano luoghi di passeggiate “alla moda” per i ricchi oziosi, che quando volevano un po’ di aria fresca si dirigevano all’Acquasola, passando da salita S. Caterina.

Veduta della passeggiata dell’Acquasola di A. Guesdon (1848)

In questo libro l’autore riporta anche alcune parole in lingua genovese, ma in modo errato. Parlando di queste passeggiate scrive: «sarcì e strade neuve – (to stroll in the new streets)». La giusta dizione, con relativa traduzione, mi è stata gentilmente fornita dal prof. Fiorenzo Toso. Sarçî e stradde neuve. Sarçî significa sia “rammendare, sia “percorrere ripetutamente” (in senso figurato). Quest’ultimo significato si adatta, come in questo caso, alla passeggiata.

«C’era sempre un numero considerevole di persone a passeggiare e due splendidi carabinieri a cavallo stavano in fondo alla salita, per evitare il passaggio di carrozze, che dovevano invece percorrere piazza Carlo Felice, via Giulia e la stretta e storta via S. Giuseppe, per arrivare poi a palazzo Spinola e da lì all’Acquasola. La piccola Acquasola l’unico posto dove si poteva respirare l’aria fresca senza dover lasciare la città. La cosa giusta da fare era girare varie volte intorno a questo spazio dove c’era una splendida vista; il giro poteva essere esteso fino alle mura della Strega per poi ritornare all’Acquasola, dopo aver goduto della bella vista del mare.»

La destra e la sinistra

«La passeggiata dell’Acquasola è bene vederla nei mesi di aprile e agosto- precisa Giuseppe Banchero nel suo libro del 1846 – è che le belle genovesi la fan ricca ed incantevole di loro presenza», ma la cosa particolare che si legge in questo libro è che c’erano due “passeggiate” quella dell’aristocrazia e quella della democrazia. «La prima passeggiata a destra, cioè verso il giardino Serra e la seconda a sinistra, verso la valle del Bisagno.

La “passeggiata” dell’aristocrazia

Nella piantina che trovate qui di seguito in azzurro il percorso pedonale per l’Acquasola, in bianco quello per le carrozze, in verde la “passeggiata” dell’aristocrazia e  in rosso quella della democrazia.

(Continua)

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